ROMA - La parola "femminicidio" è entrata
prepotentemente nelle pagine dei quotidiani italiani ma il termine non è stato
da tutti ben compreso. Si continua a parlare di follia, di donne che fanno
perdere la testa agli uomini e per questo vengono uccise, i titoli dei giornali
"tendono a raccontarlo come frutto di un amore malato”, ma le "parole
sono pietre non si può parlare di raptus quando si tratta invece di
femminicidio". Con una riflessione sul linguaggio di genere la giornalista
e scrittrice Loredana Lipperini ha aperto la discussione dell'incontro "Il
peso delle parole" all'interno del seminario "Parlare civile",
in corso di svolgimento oggi a Roma
. "Secoli di letteratura ci hanno
abituati a ragionare dando nobiltà a chi uccide, e non a chi viene ucciso -
continua Lipperini -. Quello di cui abbiamo bisogno è di imparare a pesare e a
dare significato alle parole che usiamo".
Insieme a Loredana Lipperini hanno dato vita al workshop il
direttore della rivista Internazionale Giovanni De Mauro e l'esperta di comunicazione Annamaria Testa.
Quest'ultima ha sottolineato come nel volume "Parlare civile" ci sia
"qualcosa di più di un puro lavoro sulle parole". "Si tratta di
un lavoro che va a indagare i pensieri che le parole sviluppano - sottolinea -.
Non esiste una comunicazione che non sia sociale, così come non esiste una
comunicazione che non abbia un difetto".
"I termini contenuti nel libro sottolineano le pigrizie
e i malfunzionalmenti del giornalismo italiano che sono parte di una quadro più
ampio da cui è difficile prescindere - aggiunge Giovanni De Mauro - oggi si
vendono in Italia tanti giornali quanti se ne vendevano negli anni '50: il
nostro mestiere è sempre più marginale perché ci siamo impigriti e
rinchiusi".
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